La deducibilità dei costi black list costituisce uno dei momenti rilevanti di una verifica fiscale, anche tramite questionario, per le società con rapporti con operatori residenti in regimi fiscali privilegiati ai sensi dell’art. 110, commi 10-12-bis del TUIR e può diventare oggetto di contenzioso successivo.
All’impresa residente in Italia si suggerisce un’adeguata e corretta gestione contabile delle spese ed altri componenti negativi, quali gli ammortamenti, le svalutazione, le perdite (anche di crediti), le minusvalenze ed altri costi (rimborsi spese, trasferte, canoni di locazione anche finanziaria, interessi passivi, oneri finanziari). A tal fine, è opportuno individuare in anagrafica fornitori i soggetti residenti in Paesi e Territori contenuti nel DM 23 gennaio 2002, come recentemente modificato dal DM 27 aprile 2015. I mezzi di prova utili all’individuazione si basano sulla certificazione della competente Autorità estera o sulla dichiarazione rilasciata dallo stesso fornitore estero o sulla comune documentazione commerciale (fatture, corrispondenza, ecc..) come previsto dalla circolare n. 12/E del 19 febbraio 2008, par. 8.1.
La dichiarazione dell’Autorità fiscale estera è valida per dimostrare che il fornitore estero non rientra tra i soggetti black list, anche con la presenza della clausola di non discriminazione (ar. 24, paragrafo 4 dell’OCSE) nella convenzione contro le doppie imposizioni del Paese black list: si veda la recente sentenza n. 11619/2014 della CTP di Milano in relazione ai costi sostenuti da una società italiana che si riforniva da una società svizzera. Quest’ultima aveva presentato un certificato del Fisco svizzero in cui veniva qualificata come società che versava le imposte cantonali e locali e quindi esclusa dal DM 23 gennaio 2002.
Il verificatore fiscale dovrà riscontrare l’avvenuto inserimento dei costi black list, anche in presenza delle esimenti, nella dichiarazione dei redditi. A tal fine, è opportuno ricordare che, in caso di mancata indicazione dei costi nel modello Unico, l’Agenzia delle Entrate applicherà la sanzione prevista dall’art. 8, co. 3-bis del DLgs 471/1997 in misura pari al 10% dei costi non indicati separatamente con un minimo di euro 500 ed un massimo di euro 50.000 essendo tale sanzione finalizzata “a preservare l’obbligo dichiarativo che consente all'Amministrazione Finanziaria di indirizzare i controlli” verso le operazioni con soggetti black list. L’Agenzia non ritiene applicabile la sanzione fissa per le violazioni formali stabilita dall’art. 8, co. 1 del DLgs. 471/1997 (Circolare n. 1/2013, cap. 9).
In merito alla deducibilità dei costi,si ricorda che l’art. 110, commi 10 e ss., del TUIR reca una presunzione relativa di indeducibilità dei componenti negativi di reddito derivanti da operazioni intercorse con soggetti black list. Tale presunzione di indeducibilità deve essere superata dal contribuente che, fino alle modifiche contenute nell’art. 5 del decreto internazionalizzazione, deve dimostrare alternativamente, oltre alla concreta esecuzione, una delle due esimenti previste dal comma 11 dell’art. 110 del TUIR (vedasi anche la Cassazione 29 dicembre 2010, n. 26298).
Le modifiche del decreto internazionalizzazione si applicheranno dal 2015, periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del decreto e consistono in una condivisibile semplificazione in quanto i costi black list saranno comunque deducibili nei limiti del loro “valore normale”. Scompaiono dunque le due esimenti, mentre resterà la prova della concreta esecuzione. Sul punto il parere al decreto approvato dalla Commissione Finanze e Tesoro del Senato che auspica che il valore normale sia definito sulla base delle linee guida dell’OCSE.
In attesa delle modifiche del decreto internazionalizzazione può essere utile, sia in sede di verifica che di successivo contenzioso sulla seconda esimente (ritenendo che la prima sia di fatto poco utilizzata dalle imprese italiane) alcune delle seguenti sentenze della giurisprudenza con particolare riferimento all’interesse economico (vedasi la scheda a parte). Infatti nella stragrande maggioranza dei casi ci si trova a discutere con gli organi accertatori delle ragioni economiche che hanno indotto un contribuente ad approvvigionarsi presso un fornitore “black list”. La questione “sul tappeto” è che molte volte in taluni settori (ad esempio quello dei filati o della componentista di precisione) una mera comparazione dei prezzi non potrebbe, da sola, spiegare le legittime ragioni di business che hanno portato un’impresa italiana a intrattenere rapporti con un fornitore estero “black list”.