La applicazione di un’aliquota ridotta non è abuso

La applicazione di un’aliquota ridotta non è abuso

CONDIVIDI SU

La differenza tra le aliquote IVA non rileva di per sé ai fini della prova dell'abuso.

 

La realizzazione di un’operazione che determini l’applicazione di un’aliquota Iva minore scaturente dal differente livello di tassazione esistente in due Stati membri dell’UE non è di per se un vantaggio fiscale che possa far scattare un abuso contrario ai principi dell’imposta. Questo è uno dei principi espressi dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea nella lunga ed articolata sentenza emessa il 17 dicembre 2015 nella causa C-419/14. La sentenza si occupa anche di definire, ampliandone il campo di applicazione, i limiti della cooperazione che può essere attivata dagli Stati membri in forza del regolamento 904/2010.  

La questione sottoposta all'attenzione della Corte di Giustizia, in sostanza, aveva ad oggetto un contratto di licenza relativo alla locazione di un know-how che consentiva lo sfruttamento di un sito internet tramite il quale erano prestati servizi audiovisivi interattivi, concluso con una società con sede in uno Stato membro diverso da quello nel cui territorio aveva sede la società che aveva concesso tale licenza ed il giudice del rinvio chiedeva alla Corte, tra le altre questioni, se tale operazione, valutate le circostanze del caso di specie, potesse considerarsi un abuso del diritto volto a beneficiare di un'aliquota IVA più bassa stante il fatto che nello Stato membro della licenziataria era in vigore una aliquota IVA meno elevata. La Corte di Giustizia, pertanto, sottolineando che le differenze tra le aliquote IVA ordinarie applicate dagli Stati membri derivano dall'assenza di armonizzazione completa attuata dalla direttiva IVA, ha evidenziato s come il semplice fatto che un contratto di licenza, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, sia stato concluso con una società con sede in uno Stato membro che applica un'aliquota IVA ordinaria meno elevata di quella dello Stato membro in cui ha sede la società che ha concesso le licenze non può, in mancanza di altri elementi, essere considerato come una pratica abusiva alla luce della libera prestazione di servizi. La Corte di Giustizia ha, comunque, tenuto a precisare che, diversa è la situazione in cui la prestazione di servizi sia da considerarsi ai fini della specifica imposta effettivamente resa nello Stato membro del soggetto che ha concesso le licenze. In tal caso, infatti, si è in presenza di una situazione contraria all'obiettivo delle disposizioni della direttiva IVA le quali fanno perno sul luogo di imposizione delle prestazioni di servizi, che ha proprio il compito di evitare, da un lato, i conflitti di competenza da cui possono derivare doppie imposizioni e, dall'altro, la mancata imposizione di introiti. Interessante in merito è il ragionamento seguito dalla Corte in ordine alla verifica del luogo effettivo della prestazione. In primis viene ricordato come la nozione di "luogo della prestazione di servizi", che stabilisce il luogo di imposizione di tale prestazione, al pari delle nozioni di "soggetto passivo", di "prestazione di servizi" e di "attività economica", abbia un carattere obiettivo e, dunque, si precisa che lo stesso si applica indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi, senza che l'amministrazione tributaria sia obbligata a indagare sulla volontà del soggetto passivo. La constatazione di tale luogo deve, pertanto, fondarsi su elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi come la presenza fisica della società in termini di locali, di personale e di attrezzature, vale a dire se la fissazione della sede dell'attività economica o della stabile organizzazione della società sia effettiva o se tale società, ai fini dell'esercizio dell'attività economica , abbia una struttura adeguata in termini di locali, di personale e di strumenti tecnici, o ancora se detta società eserciti una tale attività economica in proprio nome e per proprio conto, sotto la propria responsabilità e a proprio rischio. Altrettanto interessante appare, infine, la risposta della Corte in ordine alla questione se l'amministrazione tributaria di uno Stato membro che esamina l'esigibilità dell'IVA per prestazioni che sono già state assoggettate all'IVA in altri Stati membri sia tenuta a rivolgere una richiesta di cooperazione alle amministrazioni tributarie di tali altri Stati membri. Sul punto i giudici lussemburghesi sono chiari nell'affermare che, sebbene il regolamento n. 904/2010, che definisce le condizioni alle quali le autorità nazionali competenti cooperano tra loro, non precisi in quali condizioni l'autorità tributaria di uno Stato membro potrebbe essere tenuta a rivolgere una richiesta di cooperazione amministrativa all'autorità tributaria di un altro Stato membro, il dovere di cooperazione espresso dal medesimo regolamento per assicurare l'accertamento corretto dell'IVA rende una siffatta richiesta opportuna, se non addirittura necessaria. Ne deriva che quando l'amministrazione tributaria di uno Stato membro sa o deve ragionevolmente sapere che l'amministrazione tributaria di un altro Stato membro dispone di informazioni che siano utili, se non indispensabili, per accertare se I'IVA sia esigibile nel primo Stato membro, è tenuta a rivolgere una richiesta di informazioni alle amministrazioni tributarie di tale altro Stato.

}