Con l’ordinanza n. 20982/2019, la Corte di Cassazione prosegue nella (discutibile) linea restrittiva intrapresa nell’ultimo periodo, rigettando il ricorso presentato da una Società produttrice di mobili, avverso una sentenza del Tribunale che confermava l’ingiunzione al pagamento di una sanzione pecuniaria per la violazione della l. n. 350/2023, art. 4, commi 49 e 49 bis – in tema di fallace indicazione di origine e provenienza dei prodotti - consistita nell’importazione, da parte della Società ricorrente di mobili in metallo di provenienza ed origine cinese, recanti il solo marchio di proprietà della società, oltre ai dati relativi alla stessa, senza riferimento alcuno circa l’effettiva origine cinese dei prodotti.
La ricorrente denunciava la violazione e falsa applicazione della legge appena richiamata asserendo l’erroneità della sentenza impugnata ed affermando che, a proprio avviso, sulla merce non fosse riscontrabile nessun elemento idoneo ad indurre in errore gli acquirenti circa la reale origine del prodotto, ma la Suprema Corte, dopo aver analizzato il caso di specie, rileva quali siano state le omissioni commesse dalla società, imputandole dunque la condotta illecita contestatagli, sulla scorta della disciplina nazionale in tema di etichettatura di origine.
Come noto, costituisce fallace indicazione l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana anche quale qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci. Per legge, per fallace indicazione si intende anche l’uso fuorviante del marchio, da parte del titolare o licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana, qualora gli stessi non siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti (con caratteri utilizzati anche nel luogo di produzione/fabbricazione, se diversi) sulla reale origine. In questi casi, il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000, irrogata dalla Camera di Commercio territorialmente competente rispetto al luogo in cui si è verificata la violazione, salvo che lo stesso non provveda a sanare - sul piano amministrativo - la fallace indicazione, con l’asportazione a propria cura e spese dei suddetti segni, figure e marchi.
Non è chiaro, dai fatti di causa, quali siano le “modalità” di presentazione del marchio che ne avrebbero individuato l’utilizzo come fuorviante; tuttavia, si rammenta che il tema espone le aziende a rischi sanzionatori molto gravi, considerando che l’esposizione della ragione sociale dell’impresa è obbligatoria ai fini della tutela del consumatore (Codice del Consumo).