In caso di trasferimento di merce nell’UE senza una compravendita, il valore in dogana deve essere determinato seguendo la rigida e sequenziale applicazione dei c.d. metodi secondari e non può farsi immediato riferimento al valore di rivendita delle merci nell’UE.
Sono queste le conclusioni del principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 24672.19, confermativa di un dato normativo per la verità pacifico ma che in concreto, nella prassi, trova spesso contrasti applicativi.
Il valore doganale delle merci dichiarate per l’importazione, è noto, si basa primariamente sul valore di transazione, ossia il prezzo pagato o da pagare per le merci, come confermato dalla fattura di acquisto. Su questo parametro è poi applicata la fiscalità di confine, segnatamente i dazi e l’IVA.
Tuttavia, può accadere che tale valore di transazione sia assente, oppure disconosciuto dall’amministrazione doganale: possono infatti essere valorizzate merci non vendute ma meramente trasferite, a se stessi o a potenziali clienti (es. consignment stock), oppure merci in reso, campionatura, lavorazione; diversamente, può anche accadere che sia l’amministrazione finanziaria a disconoscere il valore di fattura, per esempio perché non attendibile oppure perché i legami tra le parti lo hanno influenzato (es. transfer pricing non gestito ai fini doganali).
Ebbene, in questi casi è necessario ricorrere all’applicazione di metodi secondari, pure previsti dal legislatore unionale all’art. 74 del Codice doganale UE. Questi metodi, sono sostanzialmente quattro e, per norma, devono essere applicati nel loro ordine di presentazione, salva inversione del terzo con il quarto, su richiesta dell’importatore: 1) valore di merci identiche; 2) valore di merci similari); 3) valore dedotto dai prezzi di rivendita delle merci nell’UE; 4) valore calcolato sulla base di una ricostruzione degli utili, meno i costi e le spese generali.
Posto che è evidente che, quasi sempre, il criterio n. 3) si presenta come il più sfavorevole, nella sentenza in esame è proprio il ricorso a tale metodo di valorizzazione che viene censurato dalla Cassazione, se applicato senza prima ricorrere ad uno dei primi due.
Il caso affrontato, a quanto mare, attiene all’ipotesi molto frequente di merci trasferite da una multinazionale di Hong Kong nell’Ue, la cui procedura di importazione veniva posta in essere per il tramite del proprio rappresentante fiscale, tenuto all’assolvimento dei dazi e dell’IVA. Non v’è, evidentemente, transazione alcuna in questo caso, e la merce non può essere valorizzata (o rivalorizzata in accertamento) secondo un parametro dato dal prezzo di vendita dei beni importati. Piuttosto, avrebbe dovuto farsi ricorso al valore di merci identiche e similare e, solo se questo (per onere della prova del soggetto che lo applica) non fosse stato possibile, allora avrebbe potuto farsi ricorso al criterio invece censurato, nel caso concreto, dalla Cassazione.
Il tema è molto interessante in quanto attiene a pratiche di verifica molto comuni e che spesso pongono gli operatori in una posizione di piena esposizione dinanzi all’autorità finanziaria, soprattutto in sede di verifica. Questo avviene dalle ipotesi ordinarie, dove ad essere testati sono i valori di acquisto di ingenti partite di merce, ai casi solo apparentemente minoritari nei quali il valore posto in discussione – legittimamente o meno – attiene a spedizioni espresse, campionature o derivanti da acquisiti on line.
In tutte queste ipotesi, dove dunque il valore di fattura non c’è o è disconosciuto, si pone il tema del contradditorio tra operatori ed amministrazione, volto a determinare la corretta base imponibile doganale che ora la Cassazione riordina. In definitiva, occorre seguire la rigida regola unionale, senza ricorso a criteri convenzionali, discrezionali o arbitrari, il palese violazione di legge.