Consignment stock: la nuova disposizione europea

Consignment stock: la nuova disposizione europea

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Di Santacroce Benedetto, Ficola Simona

Uniformata e semplificata a livello unionale la disciplina del contratto di “call of stock”, meglio noto nel nostro ordinamento come contratto di “consignment stock”. Vale a dire il contratto in cui il cedente nazionale vende e trasferisce le merci ad un cessionario comunitario o viceversa determinando il passaggio della proprietà e la relativa fiscalità, non al momento del trasferimento dei beni, ma solo al momento in cui il cessionario preleva i beni dal magazzino per destinarli alla produzione o alla rivendita. 

In realtà questa fattispecie non è nuova nel nostro ordinamento, giacché l’Italia aveva già adottato misure di semplificazione per queste operazioni che, senza una specifica regolamentazione, verrebbero configurate come cessione intracomunitaria presunta nello Stato di partenza dello stock dei beni trasferiti ed un corrispondente acquisto intracomunitario assimilato nello Stato di arrivo, con successiva cessione interna in detto ultimo Stato al momento del ritiro dei beni da parte dell’acquirente. L’operazione così configurata obbliga sostanzialmente il cedente ad identificarsi nello Stato membro di destinazione dello stock, al fine di perfezionare l’acquisto intracomunitario assimilato ed assolvere l’Iva in detto Stato.

Ebbene, proprio per evitare siffatto adempimento, con la Direttiva UE n. 2018/1910 è stato introdotto nella Direttiva Iva (2006/112/CE) l’art. 17-bis, secondo cui l’operazione si considera effettuata solo al momento del trasferimento del diritto di disporre dei beni come proprietario in favore del soggetto destinatario dei beni.

In virtù di detta norma, che entrerà in vigore il prossimo 1° gennaio 2020, l’intera operazione non è più fittiziamente distinta in due operazioni, ma costituisce una cessione ed un acquisto intracomunitario che si realizzano successivamente all’effettivo trasferimento dei beni dallo Stato membro del cedente a quello del futuro acquirente, ovvero quando quest’ultimo preleva i beni già stoccati.

Peraltro, la norma individua anche il termine entro cui la suddetta operazione deve essere perfezionata, che è stato previsto di dodici mesi dall’arrivo dei beni.  Detta previsione pone fine ai dubbi che nella prassi si sono sovente riscontrati nei rapporti fra soggetti stabiliti in Stati membri diversi, ove il call of stock era già previsto, ma con tempistiche di realizzazione dell’operazione differenti (l’Italia, ad esempio, già prevedeva un termine massimo di dodici mesi, mentre altri Paesi, come la Francia e l’Austria, prevedevano un termine più stringente di tre o sei mesi).

Il decorso del termine senza che l’acquirente abbia prelevato i beni e senza che gli stessi rientrino nello Stato membro di partenza, comporta l’applicazione della regola generale sopra illustrata, secondo cui i beni configurano operazioni intracomunitarie assimilate, con un trasferimento a sé stessi, con il conseguente obbligo per il cedente di assumere una posizione fiscale Iva nello Stato di arrivo dei beni.

Chiaramente, affinché possano essere correttamente utilizzate le norme semplificative sul call of stock, il legislatore unionale ha previsto una serie di condizioni che devono essere soddisfatte, fra cui la tenuta di un apposito registro per il monitoraggio dei beni trasferiti.

Inoltre, è necessario che entrambi i soggetti interessati all’operazione siano soggetti passivi di imposta ai fini Iva e il cedente non deve essere stabilito né avere una S.O. nello Stato membro in cui i beni sono trasferiti; inoltre, il cessionario dell’operazione deve essere un soggetto noto al momento dell’inizio del trasporto, quindi non rientrano nelle operazioni di callo of stock quelle in cui è previsto un trasferimento di beni in altro Stato membro per essere ivi successivamente cedute ad un acquirente qualsiasi. In questo caso, infatti, si configura una ipotesi di c.d. “tentata vendita” che segue regole differenti.

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