Con questa scheda apriamo una discussione sulle problematiche relative al corretto inquadramento delle operazioni che, avendo per oggetto la cessione di una pluralità di beni materiali e/o immateriali, possono essere ricondotte alla nozione di trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda che, come tale, si pone fuori del campo applicativo dell’imposta. La questione non è certamente nuova, ma, anche per effetto di alcuni recenti contributi dell’amministrazione finanziaria, s’impone una riflessione che consenta di fissare alcuni punti. A questo scopo, l’osservazione dovrà ancorarsi saldamente alla prospettiva IVA e, pertanto, alla disciplina comunitaria in materia e alla relativa interpretazione fornita dalla giurisprudenza della corte di Giustizia europea, la quale, nelle rare occasioni in cui si è pronunciata sul tema, ha comunque fornito importanti indicazioni. Nell’analisi non si potrà inoltre trascurare un aspetto che non pare sia stato sin qui debitamente indagato e che attiene ai profili di “territorialità” dell’azienda oggetto di cessione.
Introduzione
L’attenzione da riservare alla qualificazione di un’operazione come una “normale” vendita di beni rilevante ai fini IVA ovvero come una cessione di azienda o ramo aziendale, esclusa dal campo applicativo del tributo ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. b), DPR 633/1972, è assolutamente giustificata. Ne è prova la copiosa produzione della giurisprudenza nazionale di legittimità e di merito, da cui tuttavia emergono indicazioni non sempre pienamente convincenti nell’ottica dell’imposta, anche perché solitamente influenzate da concrete fattispecie non prive di elementi al limite della frode e condizionate sul piano nazionale dall’alternatività IVA e imposta di registro. Altrettanto numerosi sono gli interventi della prassi ufficiale che, a loro volta, contribuiscono a rendere più difficoltoso il compito dell’interprete. In un simile scenario, pare imprescindibile richiamarsi ai riferimenti di matrice comunitaria che dovrebbero guidare l’esame delle fattispecie ai fini del loro corretto inquadramento in senso IVA. In questa prospettiva, i menzionati contributi giurisprudenziali e dell’amministrazione finanziaria potranno orientare/supportare l’indagine solo se risultino allineati alle pertinenti disposizioni della direttiva n. 2006/112/CE e alla relativa esegesi elaborata dagli organi della giustizia europea.
Inquadramento giuridico della fattispecie
Piano comunitario
Nell’ambito della normativa unionale, l’operazione di cessione di azienda e di ramo di azienda è disciplinata dall’art. 19 della Direttiva 2006/112/CE (quale rifusione dell’art. 5, n. 8) della sesta Direttiva 77/388/CEE), il quale prevede che “in caso di trasferimento a titolo oneroso o gratuito o sotto forma di conferimento a una società di una universalità totale o parziale di beni, gli Stati membri possono considerare che non è avvenuta alcuna cessione di beni e che il beneficiario succede al cedente. Gli Stati membri possono adottare le disposizioni necessarie ad evitare distorsioni della concorrenza, qualora il beneficiario non sia un soggetto passivo totale.”.
La collocazione di questa norma nell’ambito delle norme che disciplinano il requisito oggettivo dell’imposta, come oggetto che si pone in deroga alla definizione di “cessione di beni”, è dovuta alla natura intrinseca del “bene-azienda”, certamente diversa dalla normalità dei beni che ha richiamato l’attenzione del legislatore unionale nel prevedere l’opportunità della sua esclusione dall’imposizione, sotto forma di facoltà riconosciuta agli Stati membri.
Un primo contributo alla comprensione della norma ed ai suoi confini applicativi si legge nella motivazione della proposta di Sesta Direttiva IVA della Commissione Europea, secondo cui la facoltà di considerare come non avvenuta, ai fini IVA, la cessione di azienda viene descritta come “offerta onde semplificare e non oberare la tesoreria dell’impresa”. Pertanto, l’obiettivo perseguito è stato quello finanziario: se l’IVA venisse fatturata sul trasferimento del patrimonio di un’azienda, notevoli somme di denaro potrebbero essere immobilizzate soltanto per essere detratte successivamente. Il risultato finale sarebbe pari a zero, ma l’impresa potrebbe trovarsi in una situazione finanziaria difficile nel momento, che potrebbe essere delicato, del cambiamento di proprietà. In applicazione del dettato normativo, uno Stato membro, quindi, può evitare di creare siffatte difficoltà facendo ricorso all’art. 5, n. 8), in quanto l’onere complessivo dell’IVA gravante sull’azienda e l’importo totale riscosso dalle autorità fiscali non risulterebbero intaccati.
Detto principio è posto a fondamento delle interpretazioni della Corte di Giustizia , che, peraltro, ha avuto modo di chiarire anche la portata oggettiva della norma, precisando che “la nozione di trasferimento di “un’universalità totale o parziale” di beni rappresenta una nozione autonoma del diritto dell’Unione, e, di conseguenza, deve ricevere un’interpretazione uniforme allo scopo di evitare divergenze nell’applicazione del regime dell’IVA negli Stati membri”. In tale nozione vi rientra il trasferimento di un’azienda o di una parte autonoma di un’impresa, compresi gli elementi materiali e, eventualmente, immateriali che, complessivamente, costituiscono un’impresa o una parte di impresa idonea a proseguire un’attività economica autonoma, non rientrandovi la mera cessione di beni.
Relativamente all’uso che il cessionario deve fare dell’universalità di beni trasferita, la normativa unionale non prevede esplicite condizioni al riguardo, richiedendo solamente che il beneficiario continui la persona del cedente, quale conseguenza del fatto che non si considera avvenuta alcuna cessione , non esigendo in alcun modo che, prima del trasferimento, il beneficiario eserciti lo stesso tipo di attività economica del cedente.
In ottemperanza al dettato normativo unionale, la Corte di Giustizia ha precisato che ai fini dell’applicazione dell’art. 5, n. 8 della sesta direttiva IVA “occorre che il cessionario intenda gestire l’azienda o la parte di azienda trasferita e non semplicemente liquidare immediatamente l’attività interessata nonché, eventualmente, vendere lo stock”.
La seconda parte del citato art. 19 Direttiva 2006/112/CE (già prevista nella precedente formulazione della norma - art. 5, n. 8), Sesta Direttiva) consente agli Stati membri di escludere dalla citata regola della non avvenuta cessione di beni, quei trasferimenti di universalità di beni a favore di un beneficiario che non è soggetto passivo dell’imposta, qualora ciò sia necessario onde evitare distorsioni della concorrenza. Ne consegue che uno Stato membro che si sia avvalso della facoltà conferitagli dalla prima parte dell’articolo in commento, deve applicare la regola della non avvenuta cessione a qualsiasi trasferimento di una universalità totale o parziale di beni e non può limitare l’applicazione della detta regola solo ad alcuni dei detti trasferimenti, tranne che alle condizioni previste nella seconda frase dello stesso articolo.
Ebbene, le limitazioni alla detta regola sono consentite solo ricorrendo entrambi i presupposti richiamati dalla norma, ovvero sia quello soggettivo – beneficiario non soggetto di imposta o soggetto passivo solo per una parte della sua attività – sia quello finalistico/teleologico – evitare distorsioni alla concorrenza. In particolare, le distorsioni alla concorrenza si potrebbero verificare qualora la universalità di beni fosse ceduta nei confronti di un soggetto che non dispone di un diritto completo alla detrazione. In questo caso, infatti, il non assoggettamento ad imposta dell’operazione farebbe sì che un soggetto passivo parziale non debba sopportare una parte dell’Iva non detraibile, laddove avrebbe dovuto sopportare tale onere se l’operazione fosse stata normalmente tassata. Infatti, secondo i principi generali che sono alla base del sistema dell’imposta sul valore aggiunto, non è ammissibile che un bene arrivi al consumo senza aver scontato l’imposta. Essendo l’IVA, per definizione, un’imposta generale sui consumi, essa incide direttamente nei confronti del soggetto, consumatore finale, che fruisce in modo autonomo del bene acquistato (o del servizio ricevuto).
Piano nazionale
La normativa interna ha recepito il dettato comunitario all’art. 2, comma 3, lett. b) del DPR 633/72 il quale pone le cessioni d’azienda o ramo di azienda fuori dal campo di applicazione dell’IVA: “non sono considerate cessioni di beni … le cessioni e i conferimenti in società o altri enti … che hanno per oggetto aziende o rami di aziende”.
La cessione di ramo d’azienda ha per oggetto il trasferimento di uno specifico settore dell’intera azienda, composto da un insieme di beni coordinabili tra loro e funzionali a un ciclo produttivo. Sulla questione, poi, se la cessione di un’azienda debba riguardare un insieme di beni organizzati e funzionanti, oppure sia sufficiente che l’azienda ceduta abbia un patrimonio oggettivamente idoneo a garantire l’espletamento di un’attività produttiva d’impresa, l’Amministrazione finanziaria ritiene che il complesso dei beni ceduti debba essere organizzato finalisticamente per l’esercizio di un’impresa.
Richiamando quanto sopra precisato in merito alla qualificazione del “bene-azienda”, nell’ambito della dottrina nazionale sono state diverse le teorie giustificative dell’esclusione dall’applicazione dell’imposta, fondate sia sulla difficoltà di determinazione della base imponibile , nonché sulla inutilità della tassazione di un bene che, per sua natura, non è ceduto al consumatore finale ovvero sulla impossibilità di attribuire una produzione di “valore aggiunto” alla cessione dell’azienda che, di fatto, costituisce il mezzo per produrre il valore aggiunto.
Il connotato precipuo dell’azienda è dato dall’organizzazione dei beni finalizzata all’esercizio di impresa , intesa come opera unificatrice dell’imprenditore funzionale alla realizzazione di un rapporto di complementarità strumentale tra beni destinati alla produzione, che siano connotati da una potenzialità produttiva.
La citata lettera b) del comma 3 dell’art. 2 del DPR 633/72 è stata oggetto di modifica ad opera del DLgs 313/1997 . In particolare, il decreto ha introdotto nella lettera b) la parte relativa a “i conferimenti in società e altri enti, compresi i consorzi e le associazioni o altre organizzazioni”. La disposizione, come illustrato nella circolare ministeriale esplicativa del provvedimento in commento , è intesa ad attrarre nel campo di applicazione del tributo (come previsto dalla sesta Direttiva), i conferimenti di singoli beni, non costituenti azienda o rami di azienda, intendendosi, questi ultimi, come complessi di beni e servizi collegati tra loro in modo da costituire un'autonoma organizzazione produttiva, mentre resta confermata l'esclusione dal tributo per i conferimenti e per le cessioni aventi ad oggetto aziende o rami di aziende.
A differenza della norma europea, la disposizione interna non fa riferimento alcuno al principio della continuazione da parte del cessionario dell’attività trasferita.
Peraltro, la giurisprudenza di legittimità riterrebbe addirittura irrilevante detto principio. Il datato orientamento della Suprema Corte secondo cui “la cessione d’azienda nella sua accezione civilistica, recepita da diritto tributario, va apprezzata sulla base di parametri obiettivi, non rilevando l’intenzione, in ipotesi paradossalmente espressa nello stesso negozio traslativo, di smembrare l’azienda che si acquista ovvero da destinare a diversa attività produttiva, non restando inalterata l’oggettiva portata, del trasferimento riguardante un complesso di beni organizzati” , sembra infatti essere condiviso anche da ulteriori pronunce. Si legge, ad esempio, nella sentenza del 10 ottobre 2008, n. 24913 che “il trasferimento costituisce cessione d’azienda laddove oggetto specifico sia costituito dal passaggio dei beni intesi in senso unitario e funzionale, suscettibile di vedersi attribuita ex ante l’attitudine all’esercizio di impresa”. Dello stesso tenore la successiva sentenza del 16 aprile 2010, n. 9163 secondo cui “ai fini dell’imposta di registro, è sufficiente la mera attitudine potenziale dell’utilizzo del bene trasferito all’esercizio di un’attività di impresa e non l’attualità dell’esercizio medesimo, né rileva, quale circostanza dirimente per l’esclusione di una cessione d’azienda, la mancata cessione delle relazioni finanziarie, commerciali e personali”.
Tale orientamento della Cassazione sembra comunque trovare delle limitazioni nelle interpretazioni dell’Amministrazione finanziaria che, in linea con il dettato normativo comunitario e con le pronunce della Corte di Giustizia UE, ha precisato che “la cessione di un ramo aziendale è un’operazione straordinaria nella quale si determina, in linea generale, una situazione di continuità tra i contribuenti interessati”.
Le questioni da indagare
Forniti sopra alcuni principi insiti nella normativa di riferimento, proviamo qui di seguito, sulla base delle recenti pronunce interpretative di individuare i temi da indagare che faranno parte dell’emanando principio di interpretazione.
Con alcuni recenti interventi, l’agenzia delle Entrate è tornata a occuparsi dei criteri utili all’individuazione (o meno) di un complesso aziendale, la cui cessione risulta estranea al sistema IVA per quegli Stati membri che, come l’Italia, hanno fatto uso della facoltà, accordata dall’art. 19 Direttiva 2006/112/CE, di considerare che in tale circostanza non sia “avvenuta alcuna cessione di beni e che il beneficiario succede al cedente”.
Più in dettaglio, con la risposta a interpello n. 466 del 4 novembre 2019 è stato escluso che la cessione di un portafoglio clienti configuri la vendita di un ramo aziendale. Si potrebbe arrivare alla soluzione opposta se il pacchetto clienti integra un complesso organico dotato di autonoma potenzialità produttiva. Posto che questa non sembra la situazione nel caso esaminato dalle Entrate non è applicabile l’esclusione da IVA e l’operazione rileva ai fini dell’imposta.
Nella stessa linea si pone la risposta n. 609 del 18 dicembre 2020 secondo cui la cessione di una “member list” non realizza il trasferimento di un complesso di elementi “idoneo di per sé a consentire la prosecuzione autonoma dell’attività di vendita” (svolta, nel caso di specie, tramite piattaforme digitali).
Nel caso della risposta n. 546 del 12 novembre 2020 (confermata dalla successiva risposta n. 574 del 10 dicembre 2020) è invece ravvisata l’esistenza di una “struttura organizzativa aziendale” in un insieme di marchi, formule, disegni, domini e connessi diritti di proprietà industriale, oltre che di prodotti di magazzino. Si tratterebbe infatti di una serie di elementi che, in combinazione fra loro, “possono prefigurare un’organizzazione potenzialmente idonea, nel suo complesso, allo svolgimento di un’attività economica a sé stante”. La relativa cessione, pertanto, è qualificabile come “cessione di ramo di azienda e non come cessione di singoli beni, e, in quanto tale, esclusa dal campo di applicazione dell’IVA” con conseguente applicazione dell’imposta di registro, in forza del principio di alternatività di cui all’art. 40, DPR 131/1986.
Nella stessa direzione si consideri anche la più recente risposta ad interpello dell’11 gennaio 2022, n. 15/E, secondo cui la cessione di un impianto sportivo ai Comuni va considerato quale cessione di ramo d’azienda e non come mera assegnazione di bene immobile e, pertanto, è esclusa dall’ambito di applicazione dell’IVA. L’impianto sportivo costituito da piscine, spazi fitness, spogliatoi, reception ed uffici di controllo-logistica comprensivo degli arredi e delle attrezzature di supporto all’attività sportiva integra, di fatto, una struttura organizzativa aziendale, in quanto trattasi di una serie di elementi che, combinati tra loro, prefigurano un’organizzazione potenzialmente idonea, nel complesso allo svolgimento di un’attività economica a sé stante. Il complesso ceduto consentirebbe ai cessionari (ovvero ai Comuni) la prosecuzione dell’attività economica autonoma ed attuale, mantenendo la propria identità funzionale anche successivamente al suo trasferimento. Di conseguenza deve considerarsi quale cessione di ramo d’azienda fuori campo IVA.
E ancora la risposta ad interpello del 23 marzo 2022, n. 151/E, con la quale l’Amministrazione afferma che, nel caso di cessione di alcuni asset significativi per l'esercizio di impresa – quali, nello specifico, i marchi di un prodotto farmaceutico, l'autorizzazione all'immissione in commercio di un prodotto farmaceutico, il dossier relativo al prodotto e il magazzino residuo alla data di perfezionamento della cessione – se gli asset trasferiti all'acquirente, una volta verificatesi le condizioni sospensive cui la cessione è subordinata, integrano di fatto una struttura organizzativa aziendale, in quanto trattasi di una serie di elementi che, combinati tra loro, realizzano un'organizzazione potenzialmente idonea, nel suo complesso, allo svolgimento di un'attività economica a sé stante esistono le condizioni per integrare una "cessione di ramo di azienda", fuori campo sul piano IVA.
Non rappresenta, invece, una cessione di ramo aziendale l’operazione che include il trasferimento di alcuni asset (titoli obbligazionari, finanziamenti attivi, contratti derivati e relative coperture, nonché di una partecipazione in un ente di diritto pubblico), ma non comprende i rapporti di lavoro o di collaborazione, quelli di consulenza o prestazione d’opera o simili e neppure beni materiali e immateriali. In tal senso si esprime la risposta a interpello n. 149 del 4 marzo 2021 (e, con riguardo al trasferimento di beni nel settore del trasporto pubblico locale, anche la risposta n. 108 del 15 febbraio 2021).
In tale direzione anche la risposta ad interpello del 31 maggio 2022, n. 318/E. In tale ultima caso, un’operazione di riorganizzazione aziendale che determina il trasferimento di funzioni di personale dalla casa madre alla stabile organizzazione italiana è irrilevante ai fini IVA e, dunque, risulta addirittura superflua la sua valutazione in termini di cessione di ramo d’azienda. Ciò in quanto il trasferimento di personale e di funzioni avviene all’interno del medesimo soggetto, trattandosi di dislocazione di personale dalla casa madre e da altra SO estere alla SO italiana. La conseguenza è che, sul piano giuridico, non vi è alcuna successione legale nei contratti con la clientela ovvero con i fornitori, i quali restano tutti in capo alla casa madre, senza far emergere, pertanto, profili IVA rilevanti. Lo stesso dicasi per la stipula da parte degli operatori di contratti temporanei di secondment e la rinegoziazione dei nuovi contratti presso la stabile italiana, restando in ogni caso la casa madre il loro datore di lavoro.
Al di là delle conclusioni sulle singole fattispecie (dibattuti e, talvolta, criticati in questo Modulo), è comunque appezzabile, a livello di metodo, che le menzionate risposte diano comunque atto della difficoltà a “fissare aprioristicamente, in via generale ed astratta, quali e quanti beni siano necessari a costituire o, meglio ad identificare, il nucleo indispensabile per determinare l’esistenza di un’azienda” (così, anche la risposta n. 546/2020 cit.) e, conseguentemente, diano atto della necessità di un esame casistico delle singole fattispecie, insegnamento – questo – che non dovrebbe essere mai obliterato e che dovrà evidentemente contraddistinguere anche questa discussione.
Ciò premesso, va altresì notato che nelle menzionate risposte, oltre a richiamare i propri precedenti in materia, l’amministrazione riserva un ruolo decisivo alle indicazioni ritraibili dagli interventi della corte di Cassazione sulla nozione di azienda e di ramo aziendale. Il che, se non può certamente considerarsi censurabile in via di principio, deve tuttavia raccordarsi con la necessità di accertare se tali indicazioni siano sempre pienamente coerenti con quelle della giurisprudenza comunitaria. Tanto più considerando che la corte di Giustizia ha chiaramente sottolineato nella sentenza 27 novembre 2003, causa C-497/01 (punto 33) come la Direttiva “non contiene alcuna definizione della nozione di trasferimento a titolo oneroso o gratuito o sotto forma di conferimento a una società di una universalità totale o parziale di beni” (l’espressione “universalità” di beni è utilizzata dall’art. 19, direttiva n. 2006/112/CE e prima ancora dall’art. 5, n. 8) Sesta Direttiva, mentre l’art. 2 del DPR 633/1972 adotta i termini “aziende o rami di azienda”), con l’effetto che, in mancanza di un rinvio da parte della norma comunitaria al diritto dei singoli Stati membri, occorre fornire “un’interpretazione autonoma e uniforme” di tale concetto (punto 34). Precisazione – quest’ultima - che sarà successivamente ribadita dalla sentenza 10 novembre 2011, causa C-444/10, nella quale è affermato che tale nozione “deve ricevere un’interpretazione uniforme in tutta l’Unione” (punto 22).
È a partire da questo aspetto allora che, secondo gli scriventi, andrebbe sviluppato il confronto qui sollecitato, senza naturalmente tralasciare gli ulteriori profili che potrebbero emergere dal dibattito.
Un primo spunto, pertanto, potrebbe riguardare proprio l’esigenza di accettare che gli strumenti messi a disposizione dalla giurisprudenza e dalla prassi nazionali non possono (o meglio, non dovrebbero) rappresentare l’unico riferimento interpretativo, dal momento che è l’oggetto della cessione a non poter essere valutato secondo i canoni (o esclusivamente secondo i canoni) elaborati per l’individuazione di un’azienda civilisticamente intesa (ai sensi dell’art. 2555 del codice civile). Oltre all’assenza di un rinvio al diritto dei singoli Stati, infatti, spinge in questa direzione anche il fatto che la corte di Giustizia (sentenza C- 444/10, punto 24, con richiami a precedenti conformi) afferma come, nella nozione di trasferimento di una “universalità totale o parziale di beni”, rientri “il trasferimento di un’azienda o di una parte autonoma di un’impresa”. Con una distinzione che, all’evidenza, implica una portata della norma comunitaria assai diversa da quella riconosciuta in sede civilistica, in cui la concezione di azienda (o ramo aziendale) è nettamente distinta da quella d’impresa (o articolazione dell’impresa). Va comunque riconosciuto che la più recente impostazione dell’agenzia delle Entrate sembrerebbe attribuire minore importanza a tale distinzione di derivazione civilistica. Nella risposta n. 149/2021 cit., in effetti, è sottolineato come l’ambito applicativo dell’art. 2, comma 3, lett. b), DPR 633/1972 concerne “un’universalità totale o parziale di beni materiali e immateriali che, complessivamente, costituiscono un'impresa o parte di un'impresa idonea a svolgere essa stessa un’attività economica autonoma”, con ciò lasciando intendere un avvicinamento all’indirizzo della giurisprudenza comunitaria.
Da qui, il ragionamento potrebbe evolversi considerando che la nozione di azienda accolta dalla giurisprudenza unionale (alla quale i più recenti approdi dell’amministrazione finanziaria non paiono completamente estranei, come appena evidenziato) potrebbe spingersi fino al punto di ritenere esistente una tale universalità anche nelle fattispecie in cui è prevalente la componente immateriale del complesso oggetto di trasferimento. In questa prospettiva, respingere l’idea di qualificare come cessione di ramo aziendale la vendita di un pacchetto clienti o di una member list (risposte n. 466/2019 e n. 609 del 18 dicembre 2020), sebbene in linea di massima condivisibile, non sarebbe da assumere come un principio generale in forza del quale sostenere sempre e comunque l’inesistenza di un ramo aziendale composto in prevalenza, o addirittura soltanto, da elementi immateriali.
Un’ulteriore direttrice dell’investigazione dovrebbe pertanto portare a esaminare la relazione corrente fra l’art. 19, Direttiva 2006/112/CE e il successivo art. 29. Tale norma prevede che “L’articolo 19 si applica, alle stesse condizioni, alle prestazioni di servizi”. Dato che, nell’interpretazione della corte di Giustizia, l’art. 19 già include nel proprio ambito “gli elementi materiali e, eventualmente, immateriali” (sentenza C-444/10, punto 24), dovrebbe essere consequenziale concludere che non sia necessario coinvolgere il disposto dell’art. 29 per sostenere che la nozione di universalità di beni (prevista dalla norma di esclusione dell’art.19) si estende all’azienda di cui siano parte oltre a beni materiali anche beni immateriali e quindi servizi (approdo cui è già giunta l’amministrazione finanziaria; cfr., circolare n. 320 del 19 dicembre 1997). Ne dovrebbe, quindi, derivare l’autonomia di quest’ultima disposizione (art. 29), la cui portata andrebbe valutata come riferita all’azienda composta soltanto di beni immateriali/servizi.
È vero che un’azienda di soli servizi non è così frequente nella realtà, ma è invece senz’altro immaginabile un ramo aziendale così articolato (di contrario avviso la Cassazione nella sentenza n. 20422 del 21 novembre 2012). Soprattutto, se si pensa alle forme più evolute di aziende attive e operative sulle piattaforme digitali e in generale sul web, le quali consentono la prestazione e la fruizione di servizi, elettronici e non, e che ben possono prescindere da elementi materiali. Non è allora da escludere che un ramo aziendale (o financo un’azienda) possa essere composto esclusivamente da elementi immateriali, quali marchi, software, licenze, contratti di consulenza, applicazioni web e altri fattori privi di materialità, ma comunque idonei all’avvio o alla prosecuzione di un’attività economica, soprattutto se, stando a quanto sostiene la stessa corte di Cassazione (aspetto di cui si dirà fra breve), è sufficiente che l’attitudine del ramo aziendale all’esercizio dell’impresa sia ravvisabile anche per effetto della sua “successiva integrazione da parte del cessionario” (così la risposta n. 546/2020 che richiama la Corte di Cassazione, sentenza n. 9575 del 11 maggio 2016, che, a sua volta, conferma le precedenti sentenza n. 21481 del 9 ottobre 2009 e n. 1913 del 30 gennaio 2007).
Né pare possa obiettarsi che una simile estensione della nozione di azienda debba necessariamente implicare un recepimento espresso da parte dello Stato della previsione di cui all’art. 29, direttiva n. 2006/112/CE. Sul punto, infatti, si ritiene di condividere il pensiero di chi interpreta quest’ultima disposizione come un semplice corollario ossia come una conseguenza automatica della scelta manifestata in relazione all’applicazione dell’art. 19, come peraltro risulta dal dato letterale della disposizione secondo cui “l’art. 19 si applica, alle stesse condizioni, alle prestazioni di servizi”.
Si è sopra accennato alla necessità che l’universalità totale o parziale dei beni materiali e immateriali ceduti consenta l’esercizio di attività d’impresa. Anche questo punto merita un approfondimento alla luce del fatto che la giurisprudenza della corte di Giustizia enfatizza la circostanza secondo cui, con il compendio ceduto, dev’essere possibile la “prosecuzione” dell’attività d’impresa (punto 46 della sentenza C-497/01 e punti 24, 25, 29, 32, 33, 35, 36 e 45 della sentenza C-444/10), mentre la (semplice) idoneità allo svolgimento di detta attività è richiamata solo per affermare l’incompatibilità con la norma di quelle situazioni nelle quali abbia luogo “la mera cessione di beni, quale la vendita di uno stock di prodotti” (punto 40 della sentenza C-497/01). Nella logica dell’amministrazione finanziaria e della giurisprudenza nazionale che essa menziona è, invece, marcata la mera potenzialità del complesso ceduto all’esercizio dell’attività d’impresa. In particolare, secondo la sentenza di Cassazione n. 9575 dell’11 maggio 2016, sarebbe sufficiente verificare che “si tratti di un insieme organicamente finalizzato ex ante all’esercizio dell’attività di impresa, di per sé idoneo a consentire l’inizio o la continuazione di quella determinata attività”. Aggiungendo poi che il “residuo di organizzazione” che deve permanere nell’universalità ceduta deve dimostrare (come si è già detto) “l’attitudine all’esercizio dell’impresa, sia pure mediante la successiva integrazione da parte del cessionario” (la recente sentenza n. 11678 dell’11 aprile 2022 afferma come tale integrazione non debba tuttavia essere di rilievo), risulta con una certa evidenza la maggiore ampiezza della visuale adottata dal giudice nazionale rispetto a quello comunitario.
Si tratta di un aspetto particolarmente delicato, poiché il giudizio in ordine alla possibilità che un ramo aziendale consenta non tanto la prosecuzione dell’esercizio dell’attività ma addirittura il suo inizio, rischia (se non correttamente inteso) di esorbitare dalla ratio dell’art. 19 della direttiva, il quale postula che “il beneficiario succede al cedente”. La norma, in altri termini, implica uno schema di sostituzione soggettiva che non pare logicamente compatibile con una situazione nella quale ciò in cui si dovrebbe succedere (l’esercizio dell’impresa o di una sua articolazione) non ha ancora avuto “inizio”. Inoltre, accettare che “l’attitudine” allo svolgimento d’attività d’impresa del ramo aziendale ceduto possa realizzarsi anche solo per effetto dell’integrazione attuata dal cessionario, rischia di dilatare oltremodo il perimetro della nozione di complesso aziendale, concedendo margini di discrezionalità eccessiva in caso di verifica da parte degli organi di controllo.
Per converso, le sentenze della corte di Giustizia mettono in risalto un profilo, anch’esso meritevole di esame, che non pare debitamente considerato né dalle pronunce della Cassazione, né nei contributi della prassi ufficiale. Ci si riferisce all’atteggiamento del soggetto (il cessionario) rispetto all’oggetto del trasferimento. Secondo la sentenza C- 497/01, il beneficiario del compendio aziendale deve infatti avere “l’intenzione di gestire l’azienda… e non semplicemente di liquidare immediatamente l’attività interessata nonché, eventualmente, vendere lo stock” (passaggio ripreso anche dalla sentenza C-444/10, punto 37). Per quanto si tratti di un elemento che introduce innegabili elementi d’incertezza soprattutto in considerazione di possibili contestazioni che potrebbero mettere in discussione, a distanza di tempo, il trattamento riservato dalle parti all’operazione, nondimeno occorrerebbe che anche tale aspetto venisse opportunamente valorizzato. Nella prospettiva dell’imposta, in effetti, la mancata rilevanza delle operazioni in questione ai fini impositivi pare giustificata dal fatto che, con il trasferimento dell’azienda, non ha luogo alcun consumo (che si realizzerà solo quando, grazie al compendio ceduto, siano effettuate ulteriori cessioni di beni o prestazioni di servizi), ma si verifica soltanto una sostituzione soggettiva (proprio tale effetto di sostituzione soggettiva pare essere considerato dalla giurisprudenza comunitaria, la quale giustifica la scelta legislativa con la necessità di evitare al sostituto/cessionario dell’azienda l’aggravio finanziario che deriverebbe dall’inclusione dei trasferimenti d’azienda fra le cessioni di beni imponibili IVA). Da ciò, deriva che omettere di attribuire qualsiasi rilievo all’effettiva prosecuzione dell’attività da parte del cessionario, non pare perfettamente in linea con lo spirito della disciplina.
Per concludere questa breve, non esaustiva, rassegna di possibili tematiche da sviluppare, potrebbe formare oggetto di analisi una problematica di notevole rilievo operativo, oltre che sistematico. Ci si riferisce alla questione della collocazione - in senso fisico - dell’azienda/ramo aziendale oggetto di trasferimento. Secondo il punto di vista esposto nelle recenti risposte a interpello n. 536 del 6 agosto 2021 e n. 637 del 30 settembre 2021, entrambe relative a cessioni di aziende esistenti all’estero di cui sono parte singoli beni dislocati in Italia, l’Agenzia delle Entrate mostra, infatti, di ritenere che la norma di cui all’art. 19, Direttiva n. 2006/112/CE vada intesa come riferita ai complessi aziendali interamente esistenti nel territorio di un singolo Stato. Solo in quest’evenienza, sarebbe infatti possibile considerare l’operazione nell’ottica del tributo e, assodato ciò, escluderne la rilevanza laddove quel determinato Stato abbia esercitato la facoltà concessa dalla norma comunitaria. Si tratta di un orientamento che non pare tuttavia perfettamente aderente al dato normativo, perlomeno sulla base delle indicazioni ritraibili dalla giurisprudenza in materia, e che dunque, per tale motivo, merita di essere indagato.
Infine, un’ultima questione da indagare riguarda i trasferimenti che si realizzano all’interno di specifiche procedure pubbliche (appalti e concessioni) in cui è la legge e le condizioni dell’appalto/concessioni che fissano le regole, imponendo ai soggetti coinvolti la dismissione a favore del nuovo appaltatore o concessionario di beni materiali e immateriali idonei alla corretta prosecuzione del servizio fornito con ricadute sociali, ad esempio, sui dipendenti ovvero per garantire il servizio all’utenza. Si veda a questo proposto la posizione espressa dall’Agenzia con la risposta 108 del 15 febbraio 2021.