La nozione di trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, operazione “neutra” ai fini IVA, nasce sul piano del diritto nazionale mentre il Legislatore UE fa riferimento, in termini più ampi, al concetto di “universalità totale o parziale di beni”. Dopo aver chiarito, la portata e la diversa estensione, in termini oggettivi, del concetto di cessione d’azienda secondo i due diversi piani normativi, si passerà ad esaminare, nel presente lavoro, il requisito della continuità, ovvero della prosecuzione in modo autonomo, dell’attività d’impresa. Anche sul punto esiste una divergenza interpretativa rispetto al diritto europeo che la Cassazione, di recente, sta cercando di sanare.
I. Il concetto di azienda secondo la normativa unionale
Nell’ambito della normativa unionale, l’operazione di cessione di azienda e di ramo di azienda è disciplinata dall’art. 19 della Direttiva 2006/112/CE (quale rifusione dell’art. 5, n. 8) della sesta Direttiva 77/388/CEE). La norma prevede che «in caso di trasferimento a titolo oneroso o gratuito o sotto forma di conferimento a una società di una universalità totale o parziale di beni, gli Stati membri possono considerare che non è avvenuta alcuna cessione di beni e che il beneficiario succede al cedente. Gli Stati membri possono adottare le disposizioni necessarie ad evitare distorsioni della concorrenza, qualora il beneficiario non sia un soggetto passivo totale. Possono inoltre adottare le misure utili a prevenire l'elusione o l'evasione fiscale mediante l'applicazione di questo articolo».
La collocazione di questa disposizione nell’ambito delle norme che disciplinano il requisito oggettivo dell’imposta, come oggetto che si pone in deroga alla definizione di “cessione di beni”, è dovuta alla natura intrinseca del “bene-azienda”, certamente diversa dalla normalità dei beni, la quale ha richiamato l’attenzione del legislatore unionale nel prevedere l’opportunità della sua esclusione dall’imposizione, sotto forma di facoltà riconosciuta agli Stati membri .
Prescindendo nella presente analisi da tutte le considerazioni relative alla definizione di “cessione di azienda” sotto un profilo civilistico, si focalizza l’attenzione sull’effettiva portata normativa e sullo scopo perseguito dalla stessa.
Un primo contributo alla comprensione della norma unionale ed ai suoi confini applicativi si legge nella motivazione della proposta di Sesta Direttiva, secondo cui la facoltà di considerare come non avvenuta, ai fini IVA, la cessione di azienda viene descritta come «offerta onde semplificare e non oberare la tesoreria dell’impresa». Pertanto, l’obiettivo perseguito è stato quello finanziario: se l’IVA venisse fatturata sul trasferimento del patrimonio di un’azienda, notevoli somme di denaro potrebbero essere immobilizzate soltanto per essere detratte successivamente. Il risultato finale sarebbe pari a zero, ma l’impresa potrebbe trovarsi in una situazione finanziaria difficile nel momento, che potrebbe essere delicato, del cambiamento di proprietà. In applicazione del dettato normativo, uno Stato membro, quindi, può evitare di creare siffatte difficoltà facendo ricorso alla facoltà prevista dalla Direttiva, in quanto l’onere complessivo dell’IVA gravante sull’azienda e l’importo totale riscosso dalle autorità fiscali non risulterebbero intaccati.
Detto principio è posto a fondamento delle interpretazioni della Corte di Giustizia, la quale, in varie occasioni, ha avuto modo di chiarire la portata oggettiva della norma, precisando che «la nozione di trasferimento di “un’universalità totale o parziale” di beni rappresenta una nozione autonoma del diritto dell’Unione, e, di conseguenza, deve ricevere un’interpretazione uniforme allo scopo di evitare divergenze nell’applicazione del regime dell’Iva negli Stati membri». In tale nozione vi rientra il trasferimento di un’azienda o di una parte autonoma di un’impresa, compresi gli elementi materiali e, eventualmente, immateriali che, complessivamente, costituiscono un’impresa o una parte di impresa idonea a proseguire un’attività economica autonoma, non rientrandovi la mera cessione di beni.
Relativamente all’uso che il cessionario deve fare dell’universalità di beni trasferita, la normativa unionale non prevede esplicite condizioni al riguardo, richiedendo solamente che il beneficiario continui la persona del cedente, quale conseguenza del fatto che non si considera avvenuta alcuna cessione, non esigendo in alcun modo che, prima del trasferimento, il beneficiario eserciti lo stesso tipo di attività economica del cedente. In ottemperanza al dettato normativo unionale, è, invece, necessario che «… il cessionario intenda gestire l’azienda o la parte di azienda trasferita e non semplicemente liquidare immediatamente l’attività interessata nonché, eventualmente, vendere lo stock».
La seconda parte dell’art. 19 della Direttiva 2006/112/CE consente poi agli Stati membri di escludere dalla citata regola della non avvenuta cessione di beni, quei trasferimenti di universalità di beni a favore di un beneficiario che non è soggetto passivo dell’imposta, qualora ciò sia necessario onde evitare distorsioni della concorrenza. Ne consegue che uno Stato membro che si sia avvalso della facoltà conferitagli dalla prima parte dell’articolo in commento, deve applicare la regola della non avvenuta cessione a qualsiasi trasferimento di una universalità totale o parziale di beni e non può limitare l’applicazione della detta regola solo ad alcuni dei detti trasferimenti, tranne che alle condizioni previste nella seconda frase dello stesso articolo . Ebbene, le limitazioni alla detta regola sono consentite solo ricorrendo entrambi i presupposti richiamati dalla norma, ovvero sia quello soggettivo – beneficiario non soggetto di imposta o soggetto passivo solo per una parte della sua attività – sia quello finalistico/teleologico – evitare distorsioni alla concorrenza. In particolare, le distorsioni alla concorrenza si potrebbero verificare qualora la universalità di beni fosse ceduta nei confronti di un soggetto che non dispone di un diritto completo alla detrazione. In questo caso, infatti, il non assoggettamento ad imposta dell’operazione farebbe sì che un soggetto passivo parziale non debba sopportare una parte dell’IVA non detraibile, laddove avrebbe dovuto sopportare tale onere se l’operazione fosse stata normalmente tassata. Infatti, secondo i principi generali che sono alla base del sistema dell’IVA, non è ammissibile che un bene arrivi al consumo senza aver scontato l’imposta. Essendo l’Iva, per definizione, un’imposta generale sui consumi, essa incide direttamente nei confronti del soggetto, consumatore finale, che fruisce in modo autonomo del bene acquistato (o del servizio ricevuto) .
II. La cessione dell’azienda secondo la normativa nazionale
L’ordinamento interno ha recepito il dettato comunitario all’art. 2, comma 3, lett. b) del DPR 633/72 il quale pone le cessioni d’azienda o ramo di azienda fuori dal campo di applicazione dell’IVA: «Non sono considerate cessioni di beni … le cessioni e i conferimenti in società o altri enti … che hanno per oggetto aziende o rami di aziende» .
La cessione di ramo d’azienda ha per oggetto il trasferimento di uno specifico settore dell’intera azienda, composto da un insieme di beni coordinabili tra loro e funzionali a un ciclo produttivo. Sulla questione, poi, se la cessione di un’azienda debba riguardare un insieme di beni organizzati e funzionanti, oppure sia sufficiente che l’azienda ceduta abbia un patrimonio oggettivamente idoneo a garantire l’espletamento di un’attività produttiva d’impresa, l’Amministrazione finanziaria ritiene che il complesso dei beni ceduti debba essere organizzato finalisticamente per l’esercizio di un’impresa .
Nell’ambito della dottrina nazionale sono state diverse le teorie giustificative dell’esclusione dall’applicazione dell’imposta, fondate sia sulla difficoltà di determinazione della base imponibile, nonché sulla inutilità della tassazione di un bene che, per sua natura, non è ceduto al consumatore finale ovvero sulla impossibilità di attribuire una produzione di “valore aggiunto” alla cessione dell’azienda che, di fatto, costituisce il mezzo per produrre il valore aggiunto .
Il connotato precipuo dell’azienda è dato dall’organizzazione dei beni finalizzata all’esercizio di impresa, intesa come opera unificatrice dell’imprenditore funzionale alla realizzazione di un rapporto di complementarità strumentale tra beni destinati alla produzione, che siano connotati da una potenzialità produttiva.
III. Il concetto della continuità aziendale: differenze tra il piano europeo e quello interno
Si è visto sopra come, sin dal dato letterale delle norme in commento, il Legislatore europeo concentri l’attenzione sulla continuità dei rapporti giuridici dal cedente al cessionario. In tal senso l’art. 19 della Direttiva 2006/112/CE richiede che «il beneficiario succede al cedente», laddove già il precedente art. 5, n. 8) della Sesta Direttiva 77/388/CEE prevedeva che «il beneficiario continua la persona del cedente» nell’ambito della cessione «universalità totale o parziale di beni».
L’interpretazione della Corte di Giustizia chiarisce il concetto, considerando che «affinché si configuri un trasferimento di un’azienda o di una parte autonoma di un’impresa, occorre che il complesso degli elementi trasferiti sia sufficiente per consentire la prosecuzione di un’attività economica autonoma…» E a tal fine è necessario che «… il cessionario intenda gestire l’azienda o la parte di azienda trasferita e non semplicemente liquidare immediatamente l’attività interessata nonché, eventualmente, vendere lo stock». Le intenzioni dell’acquirente devono essere, pertanto, comprovate da elementi oggettivi. Nello specifico, costituiscono trasferimento di un’universalità totale o parziale di beni «il trasferimento della proprietà dello stock di merci e dell’attrezzatura commerciale di un negozio al dettaglio, contestuale alla locazione al cessionario, a tempo indeterminato, del locali del negozio stesso, locazione dalla quale entrambe le parti possano peraltro recedere con breve preavviso, a condizione che i beni trasferiti siano sufficienti affinché il medesimo cessionario possa proseguire durevolmente un’attività economica autonoma» (sentenza del 10 novembre 2011, causa C-444/10). Dunque, nel caso di specie, la durata del contratto di locazione prevista e le modalità convenute dalle parti per porvi un fine, sono elementi oggettivi intesi della Corte come non idonei ad impedire la prosecuzione duratura dell’attività economica.
A differenza della norma europea, la disposizione interna non fa riferimento alcuno al principio della continuazione da parte del cessionario dell’attività trasferita.
Peraltro, in taluni casi, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto addirittura irrilevante detto principio. Il datato orientamento della Suprema Corte secondo cui «la cessione d’azienda nella sua accezione civilistica, recepita da diritto tributario, va apprezzata sulla base di parametri obiettivi, non rilevando l’intenzione, in ipotesi paradossalmente espressa nello stesso negozio traslativo, di smembrare l’azienda che si acquista ovvero da destinare a diversa attività produttiva, non restando inalterata l’oggettiva portata, del trasferimento riguardante un complesso di beni organizzati» , sembra essere condiviso da più recenti pronunce del Supremo Consesso. Si legge, ad esempio, nella sentenza del 10 ottobre 2008, n. 24913 che «il trasferimento costituisce cessione d’azienda laddove oggetto specifico sia costituito dal passaggio dei beni intesi in senso unitario e funzionale, suscettibile di vedersi attribuita ex ante l’attitudine all’esercizio di impresa». Dello stesso tenore la successiva sentenza del 16 aprile 2010, n. 9163 secondo cui «ai fini dell’imposta di registro, è sufficiente la mera attitudine potenziale dell’utilizzo del bene trasferito all’esercizio di un’attività di impresa e non l’attualità dell’esercizio medesimo, né rileva, quale circostanza dirimente per l’esclusione di una cessione d’azienda, la mancata cessione delle relazioni finanziarie, commerciali e personali» .
Tale orientamento sembra, comunque, trovare delle limitazioni nelle interpretazioni dell’Amministrazione finanziaria che, in linea con il dettato normativo comunitario e con le pronunce della Corte di Giustizia, ha precisato che «la cessione di un ramo aziendale è un’operazione straordinaria nella quale si determina, in linea generale, una situazione di continuità tra i contribuenti interessati».
Questa linea interpretativa continua a non trovare spazio presso i giudici di legittimità che sembrano più propensi a dare priorità alla potenzialità del complesso ceduto all’esercizio dell’attività d’impresa anziché dell’effettiva prosecuzione della stessa. In particolare, con la sentenza dell’11 maggio 2016, n. 11678, la Cassazione ha affermato che «l’ipotesi della cessione di azienda ricorre anche nel caso in cui il complesso degli elementi trasferiti non esaurisca i beni costituenti l’azienda o il ramo ceduti e, tuttavia, per la ricorrenza di detta cessione è indispensabile che i beni oggetto del trasferimento conservino un residuo di organizzazione che ne dimostri l’attitudine, sia pure con la successiva integrazione del cessionario, all’esercizio dell’impresa». Aggiunge poi la Corte che «si deve, quindi, verificare che si tratti di un insieme organicamente finalizzato ex ante all’esercizio dell’attività di impresa, di per sé idoneo a consentire l’inizio o la continuazione di quella determinata attività». Di recente, la Corte di Cassazione fa, invece, un passo indietro e con la sentenza dell’11 aprile 2022, n. 11678 afferma una cosa diversa. Secondo la Corte, infatti, costituirebbe elemento costitutivo della cessione «l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la usa capacità, già al momento dello scorporo dal complesso del cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere, autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente».
Ebbene, tra i due diversi orientamenti sviluppatisi in seno alla giurisprudenza di legittimità quello più recente sarebbe da preferirsi. In primo luogo, perché l’idoneità del complesso aziendale ceduto va valutata ex se, ovvero autonomamente, senza che, affinché il cessionario possa svolgere con lo stesso un’attività d’impresa, siano necessario sue integrazioni. Accettare che “l’attitudine” allo svolgimento d’attività d’impresa del ramo aziendale ceduto possa realizzarsi anche solo per effetto dell’integrazione attuata dal cessionario, rischia di dilatare oltremodo il perimetro della nozione di complesso aziendale, concedendo margini di discrezionalità eccessiva in caso di verifica da parte degli organi di controllo. In secondo luogo, perché il giudizio in ordine alla possibilità che un ramo aziendale consenta, non tanto la prosecuzione dell’esercizio dell’attività, ma addirittura il suo inizio, rischia (se non correttamente inteso) di esorbitare dalla ratio dell’art. 19 della Direttiva 2006/112/CE, il quale postula (come già sottolineato) che «il beneficiario succede al cedente». La norma, in altri termini, implica uno schema di sostituzione soggettiva che non pare logicamente compatibile con una situazione nella quale ciò in cui si dovrebbe succedere (i.e. l’esercizio dell’impresa o di una sua articolazione) non abbia ancora avuto “inizio”.