La guerra dei dazi di Trump e l’applicazione della regola di reciprocità terrà conto anche dell’Iva e – potremmo aggiungere – delle altre imposte di consumo che si riscuotono all’importazione dei beni all’ingresso nella Ue. Questo principio, che per alcuni prodotti dovrebbe determinare un innalzamento delle barriere tariffarie Usa del 25%, non è però supportato da alcuna base giuridica e – cosa più importante – da alcuna regola economica e di sistema.
Gli esempi delle auto e della pasta
Per comprenderne gli effetti, prendiamo in esame alcuni casi concreti. Partiamo dalle autovetture per le quali – secondo le affermazioni del presidente americano – questo conflitto è più delicato e di particolare interesse economico e strategico. Se consideriamo un’auto nuova di origine non preferenziale italiana, classificata alla voce doganale 87034010, che importiamo negli Stati Uniti, il dazio che andiamo a pagare è pari al 2,5% del valore del bene; analogamente, se importiamo in Italia un’auto nuova di origine non preferenziale statunitense, classificata nella stessa voce doganale, il dazio applicabile è del 2,5 per cento.
Da questo esempio è chiaro che, considerando il solo dazio applicabile, la differenza risulterebbe nulla e la regola di reciprocità porterebbe all’inapplicabilità di dazi aggiuntivi. L’amministrazione Usa, però, vorrebbe sommare a questi dazi anche l’Iva. E considerando che l’aliquota su un’autovettura in Italia è generalmente quella standard, significa che l’incremento, almeno verso l’Italia, potrebbe essere del 22 per cento.
Prendiamo un altro prodotto: la pasta alimentare di origine non preferenziale italiana, classificata alla voce doganale 1902191090, che importiamo negli Usa. Il dazio che andiamo a pagare è pari allo 0% del valore; mentre, se importiamo in Italia delle paste alimentari di origine non preferenziale degli Usa, il dazio applicabile è dell’11 per cento. Quindi, considerando il solo dazio, l’incremento che potremmo avere sarà dell’11 per cento. Ma se sommiamo l’Iva che, per questo prodotto, nella maggior parte dei casi è del 4%, la “tariffa” aggiuntiva potrebbe arrivare al 15 per cento.
La qualificazione dell’imposta
Se nel calcolo di reciprocità calcolassimo anche le imposte di consumo che applichiamo al momento dell’importazione, i numeri potrebbero ovviamente lievitare. Limitando l’analisi all’Iva, però, mancano – come detto – sia la base giuridica sia una regola economica e di sistema che giustifichino il ragionamento degli Usa.
In termini di base giuridica, si tenga conto che l’Iva, in relazione alla specifica analisi, ha l’importazione come fatto generatore; e in alcuni Stati Ue, tra cui l’Italia, è liquidata e riscossa in Dogana (in altri Stati membri, è invece riscossa – in modo più corretto, a parere di chi scrive – direttamente nella contabilità dell’importatore, se soggetto passivo d’imposta). Inoltre, sul piano della natura e delle caratteristiche, l’Iva all’importazione non è da qualificarsi come “diritto di confine”, ma come diritto interno o, meglio, unionale (purtroppo, sul punto, con il Dlgs 141/2024 entrato in vigore il 4 ottobre scorso, la legislazione italiana l’ha recentemente qualificata diritto di confine, alimentando ragionamenti erronei).
Inoltre, sul piano del meccanismo applicativo e degli effetti economici che subisce l’importatore, l’Iva, se assolta da un’impresa nell’ambito della propria attività commerciale, risulta sempre neutra, anche se il soggetto è extra Ue. Infatti, anche se è un soggetto non residente che paga l’Iva in Dogana, l’importatore potrà richiedere l’imposta a rimborso; se stabilito in Italia, invece, potrà portarla in detrazione. L’Iva quindi non ha nulla a che fare con il dazio e incide per traslazione solo sul consumatore finale. In più essa si applica non solo sulle importazioni, ma anche su tutte le cessioni di beni interne, siano nazionali o intra unionali.
Questi elementi comportano il fatto che mai e poi mai potrà essere inclusa tra le barriere tariffarie all’ingresso di beni Usa o di altri Paesi.
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