Servizi digitali, la tassazione al centro della contesa Usa-Ue

Servizi digitali, la tassazione al centro della contesa Usa-Ue

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Di Santacroce Benedetto

La corretta applicazione dell’imposta sui servizi digitali nelle giurisdizioni di mercato costituisce, dopo l’introduzione dei dazi sui beni, l’ulteriore campo in cui si consumerà la guerra commerciale all’Europa innescata ad aprile dal presidente americano Donald Trump. In effetti, le imposte collegate agli utili generati dai servizi digitali prodotti dalle grandi imprese tecnologiche americane fanno gola sia alla Ue che agli Stati Uniti. La legislazione degli ultimi anni, a livello sia Ocse sia Ue, o non ha ancora prodotto soluzioni concrete nella tassazione di questi servizi oppure risultaad oggi, ancora del tutto inefficace. In particolare, alcune scelte unilaterali nell’Unione sono state concepite quali forme di tassazione provvisoria: si pensi alla proposta della Commissione Ue della Service digital tax (documento Com(2018) n 148 finale) o alle analoghe imposte introdotte dagli Stati membri (ben 11 finora) nelle proprie giurisdizioni. La situazione richiede certamente delle soluzioni globali che – come evidenziato anche sul Sole 24 ore del 28 aprile scorso – l’Ocse si è impegnato ad attuare:

  • Pillar One: redistribuzione sulle giurisdizioni di mercato delle imposte applicabili sull’eccedenza, rispetto a una determinata soglia, degli utili prodotti dalla società multinazionale;
  • Pillar Two: tassazione minima effettiva del 15% in tutte le giurisdizioni in cui la multinazionale svolge un’attività economica.

Ma si tratta di soluzioni che trovano ostacolo proprio nella presidenza Trump, che già dall’inizio del 2025 ha manifestato (almeno per il Pillar Two) la sua intenzione di non proseguire sulla strada tracciata dai suoi predecessori. L’ambito di applicazione La difficoltà nell’introduzione di imposte efficaci e che rispettano l’equità fiscale dipende anche da ciò che si intende per “servizi digitali”. Questa nozione cambia in base alla prospettiva di chi la osserva e in base alle finalità per le quali viene elaborata. Si pensi, ad esempio, alla definizione che ritroviamo nella direttiva 2019/770 sul contenuto digitale, che è formulata in relazione ai consumatori finali (e comprende tutti i servizi che consentono all’utente di elaborare testi o giochi in ambiente cloud computing e social media), ovvero alla definizione elaborata dal Digital service act (regolamento 2022/2065/Ue) nel quale l’obiettivo è la regolamentazione dei service provider e che comprende i motori di ricerca e i servizi in cloud. Questa definizione può anche variare se noi limitiamo l’analisi del servizio alle modalità con cui lo stesso viene ordinato, erogato o intermediato. Si pensi a un servizio di car sharing: sarà sicuramente un servizio digitale se lo classifichiamo in base alle modalità di ordine e di intermediazione; non sarà digitale se lo classifichiamo in base alle modalità di erogazione.

Tre fattori

Certamente una corretta tassazione dei servizi digitali dovrebbe tener conto di tre fattori:

1 la rilevanza, nella creazione ed erogazione del servizio, della componente immateriale (il software, ad esempio); 2 la forte distinzione tra luogo di produzione e luogo di consumo;
3 l’eventuale assenza materiale del fornitore nella giurisdizione di erogazione del servizio.

Sotto questo punto di vista, l’imposta sui servizi digitali introdotta nel 2020 in Italia mostra proprio le sue principali carenze. L’imposta del 3% sui ricavi non si riferisce a tutte le tipologie di servizi digitali, ma si limita a tassare i ricavi derivanti:

  • dalla pubblicità online (fornitura di pubblicità mirata su siti e social network);
  • dall’utilizzo delle piattaforme digitali (messa a disposizione dell’utente di un interfaccia che consenta l’interazione tra gli utenti per lo scambio di beni o servizi);
  • dalla cessione di dati forniti dagli utenti (trasmissione di dati raccolti dagli utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia).

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