La tormentata convivenza della normativa in materia di transfer pricing e il valore da dichiarare in Dogana è da tempo dibattuta tra gli operatori. Di recente la Corte di Cassazione (sentenza 713/2013) è intervenuta sul tema degli "aggiustamenti prezzo", negando il rimborso dei dazi pagati in eccesso a un contribuente che aveva provveduto a rettificare le bollette doganali definitive in forza di un accordo di transfer pricing siglato con la consociata estera.
Va detto che la business community in diverse occasioni ha lamentato come l'esistenza di due sistemi di regole e, in molti Paesi, di due differenti autorità che si occupano di gestire l'imposizione diretta e quella daziaria renda il commercio "transfrontaliero" eccessivamente complicato, in contrasto con gli obiettivi di "efficientamento" voluti dalle organizzazioni internazionali e dai governi interessati. D'altro canto, le imprese multinazionali stanno prendendo coscienza del fatto che, al di là delle inevitabili differenze tra la normativa fiscale e quella doganale, è necessario trovare una soluzione al problema, evitando che la stessa transazione intercompany possa venire valutata in maniera differente dalle due autorità.
Possibili soluzioni
È evidente che la soluzione al problema vada ricercata per entrambi gli aspetti che qui rilevano e cioè la prova che il valore dichiarato in Dogana, seppure abbia interessato un'operazione tra "parti legate", possa comunque rappresentare il "valore di transazione", oltre che la gestione degli (inevitabili) aggiustamenti di prezzo, fisiologici in qualsiasi gruppo multinazionale, operati proprio per garantire che il prezzo intercompany si collochi all'interno di un range ritenuto congruo.
Al riguardo, va sicuramente salutata con favore la notizia dell'istituzione di un "Tavolo congiunto di lavoro" tra l'agenzia delle Entrate e l'agenzia delle Dogane da cui si aspettano concrete soluzioni alle problematiche in discorso. In effetti, se da un lato le autorità fiscali e doganali possono avere interessi contrapposti nel "monitoraggio" delle transazioni intercompany, d'altro canto è pur vero che entrambe le discipline, fiscale e doganale, sono interessate a che il "legame" tra le parti non abbia "alterato" il prezzo dichiarato. Va, peraltro, ricordato che il tema delle possibili interrelazioni tra la normativa sul transfer pricing e quella sul valore in Dogana è stato oggetto in passato di due conferenze congiunte dell'Ocse e del Wco nel 2006 e nel 2007.
Sullo sfondo è, però, rimasto il caveat contenuto nelle linee guida Ocse (par. 1.78), per cui i metodi utilizzati ai fini del transfer pricing non sarebbero pienamente "sovrapponibili" a quelli doganali. La soluzione al problema pare, quindi, quella di abbandonare ogni sforzo volto a trovare i possibili "punti di contatto" tra le due discipline e, in particolare, tra i metodi valutazione previsti dalle linee guida Ocse e i metodi "alternativi" previsti dal Codice doganale c omunitario, per apprezzare i possibili strumenti a disposizione dell'importatore.
Quanto, in particolare, alla dimostrazione che il "legame" delle parti non ha "alterato" il prezzo dichiarato alla Dogana, si è dell'avviso che la scelta dovrebbe andare nella direzione intrapresa nella prassi, ad esempio, da Germania, Belgio e Olanda, oltre che dalle best practice "codificate" di Australia, Stati Uniti e Canada, che già utilizzano le informazioni contenute nella transfer pricing documentation per documentare anche alle autorità doganali che, ai fini del pricing, le parti si sono comportate come soggetti indipendenti.
Nello stesso senso, del resto, si sono già espressi il Commentario 23.1. del Wco e la Camera internazionale del commercio di Parigi (Policy Statement 180/103-6-521), che hanno di fatto "valorizzato" le informazioni contenute nella transfer pricing documentation predisposta dal contribuente, al fine di accertare che l'appartenenza allo stesso gruppo delle parti non ha pregiudicato l'attendibilità del prezzo intercompany pattuito